La Primavera Araba del 2011 è una rivolta contro il capitalismo e l’imperialismo paragonabile alla Rivoluzione d’Ottobre russa del 1917: oggi come allora la rivoluzione comincia nell’anello più debole del sistema imperiale, ma al posto del comunismo c’è l’islamismo. Gli USA e i loro alleati cercano di domare questo processo sfruttando gl’istituti finanziari di Bretton Woods e l’alleanza con le monarchie conservatrici del Golfo. Decisiva sarà la capacità della Russia di fare da contrappeso a Washington e degl’islamisti di garantire una certa indipendenza politica ai paesi arabi.

Un fruttivendolo tunisino, Muhammad al-Bū‘azīzī, nel dicembre 2010 si diede fuoco nella pubblica piazza d’una piccola cittadina, suscitando le proteste che hanno abbattuto i dittatori in Tunisia e Egitto; così è cominciata un’ondata di cambiamento nel Medio Oriente e oltre. S’aggiunga, nel 2011, il ritiro statunitense dall’Iraq e i falliti tentativi di sottomettere Afghanistan e Iran. La scritta sul muro1 per l’impero è vergata in grassetto – e col sangue.

Dopo un secolo di trame – prima britanniche, poi statunitensi – in Medio Oriente e Asia Centrale, i tavoli si sono rovesciati più repentinamente di quanto chiunque avrebbe potuto immaginare. Ora che la Primavera Araba entra nel suo secondo anno, è il momento ideale per osservare come siamo arrivati fin qui. La corsa sulle montagne russe è stata lunga e terrificante, e pare solo all’inizio. Fin dal XVIII secolo era chiaro agli strateghi imperiali come Cecil Rhodes e Halford Mackinder, animati dal desiderio di conquistare il mondo, che il heartland, l’Eurasia, era la chiave per assicurarsi l’agognato impero globale. La Prima Guerra Mondiale avrebbe dovuto suggellare l’accordo: il collasso del Califfatto ottomano lasciava il Levante “libero” d’essere spartito e conquistato. Il Raj britannico era la base imperiale da cui assicurarsi l’Asia Centrale e l’Estremo Oriente. Ma gli orrori della guerra condussero ad un risultato imprevisto: la rivoluzione in Russia, che ispirò un crescente movimento anti-imperiale lungo tutta l’Eurasia. Con l’ispirazione dei rivoluzionari russi, il malcontento nel Raj cominciò a ribollire, con la richiesta di liberazione dal giogo britannico, e i patrioti cinesi si radunarono attorno al loro movimento comunista, in rapida crescita.

Il Turkestan storico era allora fuori portata, parte dell’Unione Sovietica o, nel caso dell’Afghanistan, inconquistabile. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale fu provocato dal tentativo della Germania di strappare l’impero mondiale ai Britannici e distruggere la sua nemesi russa, ma ciò non fece altro che accelerare il declino dell’euro-imperialismo, svelando come i suoi progetti si basassero sull’assassinio di massa e il freddo, calcolato privilegio per l’élite del centro imperiale.Quando il conflitto finì, si sperava che l’imperialismo sarebbe morto con esso. L’impero era stato costretto ad allearsi coi comunisti per sconfiggere i Tedeschi, e a promettere di smantellare il sistema imperiale dopo la guerra. Il nuovo ordine mondiale avrebbe dovuto essere costituito da nazioni indipendenti che competono su un campo da gioco livellato. Ma, da quello che avrebbe dovuto essere l’ultimo respiro dell’inumano sistema di “libero commercio” al servizio dell’impero, sortì una nuova prospettiva di vita: gli USA uscivano illesi dai cataclismi del XX secolo, e i capitalisti nordamericani erano ansiosi di raccogliere il testimone dell’impero ceduto dai Britannici in bancarotta.

Inoltre, una nuova, subdola ma fondamentale forza nel nuovo impero era lo Stato ebraico, instaurato da Britannici e Statunitensi nel cuore del Medio Oriente; una palese entità coloniale che copriva il suo ruolo imperiale con la retorica della liberazione anti-coloniale. Ciò a dispetto del fatto che fosse stata creata spossessando gl’indigeni arabi, proprio mentre i loro fratelli e vicini in Siria, Libano, Giordania e Nordafrica stavano conquistando l’indipendenza nominale dai padroni coloniali. Questo nuovo campo da gioco vide una lunga e sanguinosa partita, in cui le forze imperiali s’opponevano ai comunisti ed a quelle anti-coloniali. Dopo milioni di morti terminò con la sconfitta dei comunisti nel 1991; cominciò allora un nuovo gioco, in cui ancora la posta in palio era il controllo del mondo, ma senza fastidiosi comunisti all’orizzonte.

Infranto il sogno d’una fine dell’impero, il nuovo ordine mondiale fu ancora una volta apertamente imperiale. Gli strateghi accelerarono i loro piani: emblematica l’ascesa dei neoconservatori col loro “Progetto per un Nuovo Secolo Americano”, che combinava fondamentalismo mercatista e aggressività imperiale in un cocktail mortale e senza limiti geografici. L’ex unione comunista, specialmente il Turkestan, con la sua posizione
strategica e ricchezza petrolifera, fu rapidamente portata nell’orbita imperiale. Persino con la Cina si raggiunse un accomodamento, introducendola nell’ordine economico mondiale stabilito dall’impero alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ma il fardello dell’impero continuava a complicare il quadro. Gl’islamisti, che tanto utili erano stati nella distruzione del blocco comunista, ora resistevano ai disegni imperiali. Israele, anch’esso prezioso lungo tutta la lotta post-Seconda Guerra Mondiale contro i comunisti e le forze di liberazione del Terzo Mondo, si rese un attore indipendente e addirittura si propose come nuovo tutore imperiale, penetrando nel cuore dell’impero e affermandovi i propri obiettivi di espansione e ostilità contro i vicini musulmani. Su suo ordine s’è mossa guerra al mondo arabo e musulmano, ma due decenni di tentativi d’assoggettarlo non hanno fatto altro che inasprire l’opposizione islamica all’impero, per quanto grandi siano le devastazioni causate dai disegni imperiali.

E poi la Primavera Araba del 2011, e l’accesso al potere degli islamisti tramite l’urna elettorale. E poi la guerra, che non può essere vinta, contro il popolo afghano, che nel fatale 2011 ha messo in ginocchio l’impero, per quanto siano aumentati i massacri d’insorti e civili. Sì, gl’imperialisti hanno escogitato un sagace stratagemma, invadendo la Libia e deponendo il guitto al-Qaddāfī, ma colà gl’islamisti e le fiere e indipendenti tribù
sono alleati improbabili per l’impero. Il 2011 finirà alla storia come un anno altrettanto fatale del 1917, quando in Russia la gente comune si tolse il paraocchi e insorse contro gli oppressori. Ma se il 1917 vide una rivoluzione comunista contro il capitalismo e l’imperialismo condotta da un piccolo manipolo di rivoluzionari professionisti, il 2011 è stato testimone d’una rivoluzione di massa e senza capi, agevolata dalle telecomunicazioni e, nel caso del Medio Oriente, ispirata dall’Islam. Non c’è alcun Lenin, neppure un Gamāl ‘Abd al-Nāser (il leader arabo che riuscì a frenare lo schiacciasassi imperiale in Medio Oriente, e per questo è ancora riverito). A differenza dei rivoluzionari comunisti d’un tempo, i nuovi capi mediorientali di quella che può essere chiamata la rivoluzione islamica del 2011 non sono oggetto di venerazione, perché
la religione islamica mette in guardia da ciò.

Le rivoluzioni cominciano sempre negli anelli più deboli. Così il Medio Oriente è partito in anticipo, nel processo rivoluzionario, rispetto all’Occidente, sebbene attraverso il crescente movimento di solidarietà con la Palestina (in particolare la campagna “Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni”) le lotte d’Oriente e d’Occidente appaiano sempre più coincidenti. L’esame decisivo per i nuovi rivoluzionari del Medio Oriente e dell’Occidente stesso sarà come potranno navigare nelle secche politiche e nelle acque minate lasciate da un secolo d’impero. In questo momento cruciale, le esperienze d’Egitto e Russia sono istruttive. La rivoluzione egiziana del 25 gennaio ricalca quella russa del 1917: la Fratellanza Musulmana (FM) e altri islamisti, a lungo sofferenti, vengono da un movimento sotterraneo e perseguitato determinato a cambiare radicalmente l’incipiente dinastia faraonica di Mubārak; ciò rispecchia la determinazione dei comunisti russi a porre fine a quella dei Romanov e istituire un nuovo ordine basato sulla giustizia sociale. Similmente
ai comunisti del 1917 col loro centralismo democratico, la FM ha usato i suoi quadri ben disciplinati per sbancare alle elezioni del 2011. È ora in procinto di governare il nuovo Egitto secondo i princìpi islamici.

I Fratelli Musulmani e i loro alleati salafiti hanno mosso i primi passi legislativi per smantellare il sistema bancario fondato sull’interesse e creare un sistema di tassazione basato sul Bait al-Mal (“casa del tesoro”), che raccoglierebbe il denaro pagato annualmente dai musulmani egiziani come zakāt e ushur – donazioni caritatevoli e decime decretate su base religiosa. Il promotore della legislazione, il deputato di Al-NūrMohamed Talaat, ha dichiarato che stabilire quest’istituzione segnerebbe «l’inizio del sogno di restaurare il Califfato islamico». Ho sentito “Internazionale comunista”?

La scena politica egiziana a marzo 2012 era caotica ed al calor bianco: la sola speranza del vecchio regime, ‘Amr Mūsā, affronta un nugolo d’islamisti guidati dal carismatico candidato presidenziale salafita Hāzim Abū Ismā‘īl, la cui crescente popolarità terrorizza liberali e militari. Qualcuno ha nominato lo sfortunato Kerenskij e la sua nemesi Lenin? Nel frattempo, la Russia ha speso l’anno passato tentando di frenare i piani statunitensi per rimettere assieme i pezzi nel Medio Oriente usando le ormai lacere istituzioni finanziarie di Bretton Woods (FMI e Banca Mondiale), in coalizione con paesi non riformati come Arabia Saudita, Qatar e EAU, con le loro immense ricchezze petrolifere come bastone e carota. Tradotto dal russo all’arabo ciò suona come: “No alla guerra civile in Siria, una Primavera Araba andata terribilmente male!”.

Pur avendo perduto il retaggio comunista, che mirava ad eliminare l’imperialismo, la Russia rimane il principale ostacolo a un impero statunitense riformulato, composto di Stati “postmoderni” soggiogati, rassegnati alla colonia Israele e al nuovo ordine mondiale neocoloniale di stile USA. Se la Russia riuscisse a creare, assieme agli alleati del BRIC e della OCS, un contrappeso economico indipendente, e la FM e gli altri islamisti in Egitto potessero conquistare un briciolo d’indipendenza dopo due secoli di manipolazione coloniale dell’Egitto, queste due variabili – inserite in un’equazione molto poco lineare – segnerebbero l’inizio d’un nuovo ordine mondiale, molto diverso da quello che hanno in mente gli strateghi di USA e Israele. Ciò non è affatto certo; ma il 2011 ha visto aprirsi una crepa nel sistema significativa, a modo suo, quanto quella manifestatasi nel 1917. Russia e Egitto posso apparire diversi come il giorno e la notte, ma forniscono l’asse per una nuova mappa politica del mondo.
(Traduzione dall’inglese di Daniele Scalea)

NOTE
1 Espressione idiomatica d’origine biblica in uso nella lingua inglese. Il significato è: “Qualcosa
di brutto sta per accadere”. Si è scelto qui di lasciare un calco della stessa per
preservare la successiva figura retorica. [N.d.T.]

Focus Geopolitica -- Rivista Trimestrale dell-ISAG
Vol. 1, No 2 Estate 2012

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Canadian Eric Walberg is known worldwide as a journalist specializing in the Middle East, Central Asia and Russia. A graduate of University of Toronto and Cambridge in economics, he has been writing on East-West relations since the 1980s.

He has lived in both the Soviet Union and Russia, and then Uzbekistan, as a UN adviser, writer, translator and lecturer. Presently a writer for the foremost Cairo newspaper, Al Ahram, he is also a regular contributor to Counterpunch, Dissident Voice, Global Research, Al-Jazeerah and Turkish Weekly, and is a commentator on Voice of the Cape radio.

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