Addentrandoci nella Fattoria degli Animali europea è possibile notare, secondo Eric Walberg, che alcuni animali sono più uguali degli altri.

La scorsa settimana due milioni di persone sono scese in strada ad Atene, nel secondo sciopero generale che ha avuto luogo nel paese questo mese, per protestare contro le misure di austerità proposte dal governo socialista. Tutta la Grecia si è fermata per 24 ore ed anche l’aeroporto di Atene è stato chiuso. L’unico trasporto pubblico attivo era il trenino pendolare che permetteva ai manifestanti di raggiungere i cortei.

La crisi greca è esplosa lo scorso autunno, quando George Papandreou ha assunto l’incarico di primo ministro scoprendo che il paese era in bancarotta. Il governo conservatore, al fine di portare la Grecia all’interno dell’area euro, aveva falsificato i libri contabili. Quello che sulla carta, cortesia creativa di Goldman Sachs, risultava essere un deficit di bilancio del 3% ed un debito pubblico pari al 60% del PIL, nel 2009 era esploso rispettivamente al 13% ed al 125%.

Inizialmente l’UE aveva provato ad approcciarsi al problema in maniera soft, dichiarando la propria solidarietà nei confronti della Grecia. Tuttavia gli squali finanziari hanno iniziato ad affilare le zanne, sentendo l’odore di sangue. Il loro responso è stato, ovviamente, di affrettarsi per trarre profitto dalla crisi greca. Il rating sulla Grecia è stato abbassato, implicando che ogni nuovo titolo di Stato emesso comporterà un maggiore tasso d’interesse dovuto dal governo (cioè, dalla popolazione greca). Tutto ciò renderà più difficile per la Grecia (cioè, per la popolazione greca) ripagare i debiti contratti nei confronti delle banche. E quando il paese fallirà, l’UE sarà comunque costretta a sborsare. Una doppia vincita per i gatti grassi. Ciò che i dirigenti europei intendevano per “solidarietà” non era il versamento di soldi pubblici verso la Grecia, analogamente a come quegli stessi dirigenti si sono comportati nei confronti delle loro banche nell’ultimo anno e mezzo, bensì piuttosto lo spremere dalla popolazione greca quanto dovuto alla banche, facendo affidamento agli oracoli del FMI.

Il Parlamento Europeo, la facciata democratica per questa operazione, si è rivelato in realtà solo il portavoce dei ricercatori dell’austerità. Il presidente del Comitato Speciale del Parlamento Europeo sulla Crisi Economica e Finanziaria Wolf Klinz ha addirittura richiesto l’invio di un commissario che verifichi che i Greci versino il tributo di sangue dovuto.

Ma chi ha prodotto l’inganno in prima istanza? L’agenzia europea di statistica Eurostat sostiene che nel 2001 Goldman Sachs aiutò segretamente il governo di destra greco a rispettare i criteri di accesso all’area euro, mascherando le reali dimensioni del deficit e del debito pubblico. Una volta in Eurolandia poi, i consumatori greci si sono gettati ingenuamente a capofitto sui beni di lusso tedeschi, lasciando atrofizzare la loro stessa industria. Ora la trappola del debito si sta chiudendo.

Il modo tradizionale di uscire da tale trappola sarebbe stato una svalutazione della dracma, al fine di tagliare le importazioni e stimolare le esportazioni, distribuendo il fardello dell’aggiustamento sulla nazione nel suo complesso, ricchi e poveri. Ma la dracma non c’è più. Legata all’euro, la Grecia non può né stimolare il proprio mercato interno, né esportare con successo. La povertà sembrerebbe essere l’unica soluzione. Oppure, seguendo il suggerimento di Josef Schlarmann, storico esponente dei Cristiano Democratici tedeschi, la Grecia potrebbe svendere le proprie isole o i resti archeologici, magari a qualche banchiere tedesco. I greci ricordano ancora molto bene la brutale occupazione della Seconda Guerra Mondiale, e questa maldestra affermazione ha già dato il via ad una campagna di boicottaggio verso i prodotti tedeschi.

In qualsiasi modo si tenti di coprire il disastro creatosi, la prospettiva per la Grecia (e per l’Unione Europea) rimane tetra, poiché Francia e Germania stanno semplicemente incrementando le loro passività e non riducendo quelle della Grecia, ed il governo ellenico non riuscirà, con tutta probabilità, a tagliare il proprio deficit del 10%.

Il tessuto dell’Unione Europea viene fatto a pezzi mentre i membri più ricchi voltano le spalle ai membri più poveri. La ferrea legge del capitalismo, il forte protegge i propri interessi a spese del debole, trova applicazione ancora una volta. Spremere i lavoratori. Propaganda comunista, si potrebbe affermare, ma sfortunatamente un dato di fatto.

In un’Europa ideale, i lavoratori in Germania verrebbero in soccorso dei lavoratori in Grecia, pretendendo una radicale revisione della politica economica, richiedendo che le banche diventino sovrane ed i banchieri impiegati pubblici, costruendo così una vera democrazia sociale. La realtà è abbastanza differente. La crisi finanziaria greca rivela l’assenza di un reale spirito comunitario nell’UE. La solidarietà dichiarata dai membri dell’Unione Europea è una solidarietà di uomini d’affari.

L’Unione Europea è oggi portatrice di un surrogato d’ideologia internazionalista, il quale rigetta la nozione di Stato nazione ritenendola la fonte di tutto il male e coltiva, secondo quanto ricorda Diana Johnstone nel suo La crociata dei folli: Jugoslavia, NATO e le delusioni occidentali, “un pomposo orgoglio dell’Europa, ritenuta il centro dei diritti umani e colei che impartisce lezioni morali al mondo, in perfetto accordo con la sudditanza alla politica imperialista americana nell’area medio-orientale e non solo”. In questa accogliente fratellanza europea, la Grecia è dipinta come un pittoresco paese del Terzo Mondo, che vive la spensierata vita della cicala di Esopo alle spalle della formica tedesca. I paesi come il Portogallo, l’Italia/l’Irlanda, la Grecia e la Spagna sono affettuosamente soprannominati PIGS (maiali), un agghiacciante richiamo alla Fattoria degli Animali di Orwell.

Tuttavia le nuvole di tempesta non si addensano solo sopra la Grecia: l’intero mondo occidentale è ancora profondamente immerso nella crisi fiscale. La banca d’investimento Société Générale ha recentemente pubblicato una spaventosa stima delle reali passività dei governi occidentali, includendo i debiti extra-bilancio. In ogni caso i numeri, tenendo conto delle passività derivanti dai fondi pensione scoperti, fanno apparire la posizione debitoria ufficiale inferiore a quella che è realmente. La Grecia si rivela largamente il peggior paese da questo punto di vista, a causa di quello che Otmar Issing, l’ex capo economista tedesco della Banca Centrale Europea, ha descritto con il tatto tedesco come “uno dei più lussuosi sistemi pensionistici del mondo”. Le passività nette totali di tale sistema corrispondono all’800% del PIL, otto volte di più rispetto alla posizione ufficiale. Per gli USA la percentuale è del 550, per il Regno Unito del 400, per la Germania del 400, per la Francia del 550, per l’Italia del 350 e per la Spagna del 250. In altre parole, l’intero mondo occidentale è insolvente ed ogni paese dovrà affrontare il giorno della resa dei conti, partendo, in maniera abbastanza appropriata, dalla Grecia, la culla della civiltà occidentale.

Chi raccoglie i cocci quando i banchieri attuano un capitalismo da casinò, per poi fallire? Il 6 marzo il novantatre percento della popolazione islandese ha respinto una proposta che richiedeva alla popolazione stessa di coprire i debiti della loro più antica e grande banca. Tale misura sarebbe costata ad ognuno dei 317.000 cittadini islandesi circa 17.000 dollari. Il referendum nazionale islandese è stata la prima espressione (legale) nella quale si è concretizzata la volontà popolare di decidere chi paga quando l’élite finanziaria fallisce. Gli (illegali) scioperi generali greci sono invece stati la prima espressione veramente democratica del volere della gente. Gli squali dovrebbero prestare ascolto. Quando l’ossigeno finisce, l’acqua diventa un pozzo nero ed anche i loro giorni sono contati.

Mentre i lavoratori iniziano a svegliarsi, una nuova pagina viene scritta nel loro libro mastro. La presa di coscienza deve essere internazionale. La scorsa settimana una successione di scioperi e proteste ha avuto luogo in Europa: i piloti di Lufthansa, i controllori del traffico ed i lavoratori delle raffinerie francesi, i cortei di Madrid, Barcellona e Valencia contro le misure di austerità imposte dal governo socialista spagnolo. I sindacati della Repubblica Ceca, inoltre, hanno annunciato una settimana di stop ai trasporti pubblici. In Portogallo si è assistito ad uno sciopero generale di un giorno nel settore pubblico, contro le misure del governo volte a tagliare il deficit del 3% prima del 2013. Un vero movimento pan-europeo sembra essere nato. Secondo Sean O’Gready dell’Independent, queste azioni “parrebbero l’inizio dei più imponenti fermenti visti sul continente europeo dal fervore rivoluzionario del ’68”.

L’altra lezione imparata dai lavoratori è che essi devono liberarsi dalla zavorra della loro dirigenza. Lo scopo dei sindacati sembra essere diventato quello di regolare le tensioni sociali, assicurando che esse non costituiscano una minaccia per la grande industria e per lo Stato. I lavoratori di bordo della British AirwaysVereingung Cockpit, ha sospeso gli scioperi su Lufthansa il primo giorno, così come ha fatto la Confederazione Generale del Lavoro nei confronti del gigante petrolifero Total in Francia. In entrambi i casi i sindacati sono capitolati senza aver portato a buon fine alcuna rivendicazione dei lavoratori. avevano deciso di scioperare fino a che il loro sindacato non ha deliberato la sospensione di tale misura. Il sindacato dei piloti tedeschi,

I tagli più draconiani sono stati imposti dai governi socialdemocratici; in particolare, i socialisti in Grecia, Spagna e Portogallo. In tutti i casi, scrive Christ Marsden, “essi sono stati eletti con il sostegno delle burocrazie sindacali, che sono rimaste loro alleate nel momento in cui le promesse riforme hanno dato il via all’austerità di bilancio”. Lo sciopero generale in Grecia è il segnale che la dirigenza sindacale confederale è stata spazzata via dall’azione dei lavoratori furibondi contro il governo pseudo-socialista; senza dubbio solo un assaggio di ciò che verrà. Ancora una volta propaganda comunista, ma sfortunatamente vera.

Una triste nota la merita il caso del più debole nuovo membro dell’UE proveniente dall’ex blocco sovietico. La caduta di 25 punti e mezzo del PIL lettone negli scorsi due anni rappresenta già un primato storico a livello mondiale, maggiore della Grande Depressione e con proiezioni di un ulteriore aumento del debito ed ulteriori misure di austerità necessarie, mentre il governo continua follemente ad inseguire il fuoco fatuo dell’euro. Sì, i lettoni sono certamente corrotti, le loro élites post-sovietiche hanno rubato, spogliato e venduto l’economia agli interessi occidentali, e poi trasferito i guadagni così ottenuti all’estero.

Ma ancora peggiore è il completo furto portato avanti in pieno giorno dalle banche occidentali che, grazie ai loro amici accademici autori della normativa bancaria lettone, hanno prima offerto credito facile denominato in euro, poi, quando la bolla è scoppiata, sono potute entrare nel paese per impossessarsi di ciò che ne restava. Perché invadere paesi come la Grecia o la Lettonia con armate, quando si hanno i banchieri? Il vero significato dell’euro appare ora chiaro: non essendoci più economie nazionali, non vi sono più soluzioni nazionali per la crisi fronteggiata dai lavoratori greci, spagnoli o portoghesi o di qualsiasi altro paese. Essi sono costretti in una lotta comune contro il capitale globale. “Lavoratori di tutto il mondo unitevi!” non è mai suonato così appropriato. Ed un piccolo oracolo per Goldman Sachs, Klinz, Schlarmann e Issing: prenotate le vostre prossime vacanze invernali nella soleggiata e spendacciona Grecia a vostro pericolo.

http://www.eurasia-rivista.org/3640/eurocrisi-lettonia-e-pigs

(traduzione di Francesco Rossi)

 

* Eric Walberg, giornalista, collabora col settimanale egiziano in lingua inglese “Al-Ahram Weekly”

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Canadian Eric Walberg is known worldwide as a journalist specializing in the Middle East, Central Asia and Russia. A graduate of University of Toronto and Cambridge in economics, he has been writing on East-West relations since the 1980s.

He has lived in both the Soviet Union and Russia, and then Uzbekistan, as a UN adviser, writer, translator and lecturer. Presently a writer for the foremost Cairo newspaper, Al Ahram, he is also a regular contributor to Counterpunch, Dissident Voice, Global Research, Al-Jazeerah and Turkish Weekly, and is a commentator on Voice of the Cape radio.

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